lunedì 31 agosto 2009

L'asino di Buridano

Le frontiere fra Stati hanno sempre esercitato su di me un fascino speciale. Il passaggio di una frontiera è come se lasciasse il mio passato alle spalle e si aprisse ad un futuro ancora incerto. La fascia neutra fra le frontiere è in bilico fra passato e futuro, ma non riesce a diventare presente perché quella terra di nessuno è vuota, e il nulla fisico equivale in un certo modo al nulla temporale. Quando passo un confine dunque, quella zona di transito intermedia per me non è altro che un nulla sia in termini di tempo che di spazio. Ricordo che al tempo del muro di Berlino, nel piccolo museo del Checkpoint Charlie della zona ovest era esposta la foto di un tale cittadino di Berlino Ovest che per burla si divertiva a camminare sulla striscia bianca dipinta sull’asfalto che delimitava i due settori est e ovest della città. L’uomo ci camminava sopra a braccia larghe, come un trapezista cammina in equilibrio sulla corda tesa di un circo. In quel momento quel tale non era da nessuna parte, né ad est né ad ovest, quindi volendo prendere in prestito per un attimo la teoria di Einstein, lui e la sua burla goliardica erano anche fuori tempo. La sensazione d’indecisione che si prova in quelle situazioni doveva essere come quella dell’asino di Buridano. Se non conoscete questa storiella ve la racconto. L'asino di Buridano aveva fame e qualcuno lo condusse in un luogo dove si trovavano due covoni di fieno. L’animale si trovava ad ugual distanza fra loro, ma pur avendo molta fame non sapeva decidersi quale dei due covoni mangiare per primo, quindi finì per non mangiare nessuno dei due e morì di fame. In un certo giorno del mese di novembre di un certo anno, non chiedetemi quale anno perché non ricordo dal momento che non tengo diari, l’asino di Buridano ero io, e l’asinina zona d’incertezza spazio-temporale era il passaggio di frontiera fra Israele ed Egitto al valico di Taba, regione del Sinai. Quel giorno di quel mese di novembre stava per diventare il mio terzo passaggio sempre alla stessa frontiera. Venivo da Dahab, Sinai, Egitto, e procedevo per Tel Aviv, Israele: poi da Tel Aviv ripassavo la stessa frontiera per Dahab, e così via. Perché mai l'ago della mia bussola interna era impazzito come quello di una spedizione al polo nord? Difficile dirlo. Forse non riuscivo a decidermi tra i molli agi della vita balneare di Dahab e le frequentazioni dei caffé e dei bar di spiaggia del litorale di Tel Aviv. Dev’essere stato proprio così: a forza di voler vivere sia la vita beduina sulla costa dal mare cristallino del Sinai e la dolce vita post-litteram di quella via Veneto mediorientale che è la Yehuda Avenue di Tel Aviv, non facevo che muovermi fra quei due poli senza sapermi decidere cove stare. Ho detto all’inizio che le frontiere su di me esercitano un certo fascino, tuttavia quella fu l’occasione in cui andai più vicino a perdere per sempre non solo l’attrazione delle frontiere, ma anche quella delle due vite parallele, nei rispettivi firmamenti della mezzaluna e della stella di Davide. Il fatto è che una volta passata la dogana egiziana (i militari egiziani in divisa bianca e basco nero, baffuti, scuri e diffidenti all’inizio, con sorriso cavallino poi, già mi conoscevano), arrivato al controllo israeliano qualcosa nell’ingranaggio s’inceppò. Già mi aspettavo i meticolosi controlli del mio bagaglio eseguiti dalle maliose doganiere israeliane, già sapevo che mentre queste si sarebbero concentrate nella ispezione del mio bagaglio, io mi sarei concentrato ad osservare loro, belle donne dagli occhi neri e bistrati alla Cleopatra che dardeggiavano occhiate su tutto. Perfette nelle loro divise, con le loro dita manicurate che frugavano fra le mie cose, nella dogana più diffile del mondo dimostravano un addestramento perfetto. Poi però, improvvisamente, il mio passaporto mi venne confiscato, passarono lunghi minuti, si aprì la porta di un ufficio e ne uscì un funzionario in borghese, mai visto prima, con il mio passaporto in mano. L’uomo era nervosissimo, mi rivolse molte domande e le mie risposte, chissà perché, lo irritarono ancor più. Il funzionario mi rifiutò l’entrata in Israele! C’erano stati troppi passaggi di frontiera, e la mia presenza era sospetta. Esibii un paio di lettere credenziali con un mio contatto in Tel Aviv. Il funzionario ‘cattivo’ si allontanò per telefonare, poco dopo tornò, dichiarò che il mio contatto era assente e mi ingiunse di ritornare da dove venivo. Decisi che avrei tentato il giorno dopo, ripassai i 50 metri di terra di nessuno fra le due dogane e rientrai nell’edificio della dogana egiziana. Qui mi dissero che non mi era permesso rientrare in Egitto perché privo di visto d’uscita israeliano. Prego non insistere. Ero estromesso, bandito e indesiderato dall’una e dall’altra parte. Avendo desiderato i due mondi ora non ne avevo nemmeno uno. Tornai alla frontiera israeliana (la fuga dall’Egitto), e feci richiesta di vedere il funzionario ‘cattivo’. Di nuovo si aprì quella maledetta porta, di nuovo ne uscì l’uomo diventato ora carceriere e aguzzino, di nuovo l’ingresso mi venne negato. La sua unica concessione fu di farmi scortare a Tel Aviv con visto di transito fino all’aeroporto per imbarcarsi sul primo volo di linea fuori dal paese. Tirai fuori di nuovo le mie credenziali con il mio contatto e lo pregai di nuovo di chiamare Tel Aviv. L’energumeno mi strappò di mano i documenti e mi intimò di aspettare fuori dall’edificio. Ora mi trovavo di nuovo nella terra di nessuno, uno spiazzo che si allargava intorno ai due passaggi di frontiera ed era delimitato da una balaustra da cui si vedeva a nord-est il golfo di Aqaba e il centro abitato di Eilat, più lontano a sud la costa brulla della Giordania, a sud l’entroterra grigio e desertico del Sinai. Ero bandito dagli uni e dagli altri, ero diventato il fratello meno dotato dell’asino di Buridano, quello a cui entrambi i covoni di fieno erano stati tolti. Ci voleva un piccolo miracolo per togliersi da quell’impiccio, ma in quello sterpaio figlio di nessuno non vedevo alcun pruneto ardente, dal quale una voce ultraterrena mi dicesse quale era la soluzione. Di lì a un’ora venni richiamato nell’edificio della dogana israeliana, il funzionario ‘cattivo’ aveva parlato con qualcuno in Tel Aviv, la situazione si era sbloccata e l’uomo mi gesticolò malamente di andarmene. Ero libero di entrare in Israele! Uscii dalla dogana e m’infilai in un taxi diretto a Eilat. Mi adagiai sul sedile posteriore e mi sentii a mio agio, come se quel taxi fosse diventata la mia ambasciata. Il taxista era di buon umore e in vena di conversare. L’argomento della conversazione di uno che fa il suo ingresso in israele non poteva essere che Israele stessa. Israele... e la Palestina, e quindi gli israeliani, i palestinesi, questi due popoli tanto vicini e quanto mai distanti. Senza preamboli le argomentazioni del taxista imboccarono una direzione ben precisa, fatta a tunnel senza luce alla fine. Come risolvere il problema palestinese? Il taxista aveva una sua idea ben precisa su come risolverlo. Il problema dei palestinesi era che i militari israeliani ne uccidevano troppo pochi. Se quelli avessero cominciato ad ucciderne in quantità, ma veramente tanti, ecco che allora i palestinesi avrebbero cominciato a capire e a diventare moderati. Per il taxista che mi stava conducendo a Eilat un palestinese era come un bambino ritardato, con il quale con si conversa ma si agisce. Le parole testuali del taxista furono: ‘Lei è nuovo di qui, ma mi deve capire... per noi questo non è un vero problema. Abbiamo un esercito molto forte, per noi è come strangolare un infante di dieci mesi...’ E così dicendo staccò una mano dal volante e la aprì e richiuse più volte, a tenaglia.
Ero sicuro che l’opinione di quel taxista non rifletteva che parzialmente quella di tutti gli altri suoi colleghi del sindacato taxisti di Eilat. Inoltre sono convinto che non riflettesse nemmeno, per quanto mi riguarda, quella di tutti gli altri suoi connazionali. Al problema palestinese ci doveva essere un’altra soluzione.